Difficoltà a contenere le emissioni inquinanti, aumento delle temperature in tutto il mondo, danni alla biodiversità e agli ecosistemi: la crisi climatica è, oggi come mai, nel mirino delle politiche internazionali. Un concetto chiave della tematica ambientale è quello che concerne la transizione energetica, cioè un graduale cambio di rotta nell’utilizzo delle fonti di energia, indirizzandosi sempre più verso fonti rinnovabili e limitando invece quelle non rinnovabili. Non un mero passaggio dalle une alle altre, ma la creazione di un modello energetico che segua dinamiche globali improntate a ecologia e sostenibilità.
I primi tasselli sono già stati poggiati. Con il Green Deal l’Unione europea si prefigge di tagliare del 55% le emissioni di anidride carbonica entro il 2030, con l’obiettivo di raggiungere entro il 2050 la neutralità climatica: zero emissioni nette. Ma a che punto è l’Italia in questo percorso?
Secondo il rapporto annuale delle Ong Germanwatch, Can (Climate action network) e New Climate Institute in collaborazione con Legambiente per l’Italia, il nostro Paese ha perso 3 posizioni e occupa il 30esimo posto nel “Climate Change Performance Index 2022”. Questa classifica prende in considerazione 63 Stati più la stessa Ue, che messi insieme producono il 92% delle emissioni nel mondo. Le cause della cattiva performance dell’Italia sono da ricercarsi in uno sviluppo non abbastanza significativo delle energie rinnovabili e delle politiche climatiche nazionali.
D’altro canto il nostro Paese può contare su ben 70 miliardi allocati dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Inoltre la transizione energetica potrebbe rivelarsi un’occasione importante per colmare il divario economico tra Nord e Sud, date le risorse del Mezzogiorno in termini eolici e solari.
Il podio della classifica “Climate Change Performance Index 2022” è però rimasto senza “vincitori”, in quanto nessuno ha effettivamente rispettato i parametri necessari per mantenere il riscaldamento globale entro il tetto massimo di 1,5 gradi centigradi fino a metà secolo, come stabilito dall’accordo del G20 sul clima. Dal quarto al sesto posto si collocano quindi Danimarca, Svezia e Norvegia, essendosi distinte per l’impegno nelle rinnovabili. Agli ultimi posti invece i principali utilizzatori ed esportatori di combustibili fossili: Arabia Saudita, Canada, Australia e Russia. Al 37esimo posto la Cina, che nonostante lo sviluppo delle energie rinnovabili, rimane al primo posto per emissioni globali. Gli Stati Uniti, secondi solo alla Cina per emissioni globali, si collocano al 55esimo posto, essendo comunque saliti di 6 posizioni con il programma energetico avviato dal governo Biden, il quale deve però ancora dare i suoi frutti. L’Unione europea scende di 6 gradini, fino al 22esimo posto, principalmente a causa delle basse performance di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia, tutte fra gli ultimi 15 posti. Infine, tra i paesi del G20, solo Regno Unito (7°), India (10°), Germania (13°) e Francia (17°) sono riusciti a collocarsi tra i primi 20 posti.
Al di là dei numeri, la tematica ha sicuramente guadagnato un posto privilegiato nell’agenda politica e nel dibatto pubblico. Come sottolineato recentemente dallo stesso premier Mario Draghi, le fonti rinnovabili presentano anche dei limiti, ad esempio i cali di energia nei momenti di minore intensità del vento e del sole. Da qui l’importanza di mettere a punto soluzioni di storage, affiancando, nella giusta misura, altre fonti di energia non altamente inquinanti. Il tutto non potrà prescindere dallo sviluppo delle tecnologie, della produzione e delle tecniche di smaltimento. Il processo che accompagnerà il cambiamento sarà quindi complesso e graduale e passerà dalle politiche di efficientamento energetico e da campagne di sensibilizzazione sulle pratiche green.
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